lunedì 27 novembre 2023

Dedicano canzoni d'amore alle donne kamikaze palestinesi e ci fanno la predica sul "patriarcato"

Che orrore la tripla morale dei nostri paladini della "lotta al femminicidio": non fiatano sugli orrori multiculturali, anzi li approvano in nome del "Progetto Aisha", la sposa bambina di Maometto.

Giulio Meotti

Non sarebbe stato male se la marcia di Roma contro la violenza sulle donne avesse dato la parola a Esther, una ragazza israeliana che ha subito atrocità sessuali durante l’attacco di Hamas del 7 ottobre. I terroristi palestinesi l'hanno violentata e picchiata, sotto lo sguardo del fidanzato, costretto ad assistere con un coltello puntato alla gola. "È stato così doloroso che ho perso conoscenza, si sono fermati quando pensavano che fossi morta", ha detto Esther a Le Parisien. I terroristi di Hamas hanno mutilato la giovane con un coltello e con una scheggia di vetro, provocandole una paralisi irreversibile alle gambe. “Dentro sono mezzo morta”.

Invece la manifestazione sulle donne di Roma è stata filo Hamas.

Michel Houellebecq, ospite alla televisione pubblica israeliana, ha detto che “questa sinistra è diventata cattiva”, spiegando che, negli anni ’70, non avrebbero mai sostenuto Hamas. "Gli uomini di sinistra erano già un po' stupidi, ma nel complesso piuttosto simpatici”. Oggi invece “le università sono in mano a persone di sinistra in gran parte antisemite”. Quanto a Greta Thunberg, Houellebecq taglia corto: “Una pazza”.

Sono un po’ pazzi, sì, ma con loro tocca confrontarsi.

“Il patriarcato è l’inconscio collettivo della violenza sulle donne”, sentenzia Massimo Recalcati. “Il sistema è tossico e patriarcale”, dice il deputato Dem Alessandro Zan, promotore di un disegno di legge che, se approvato, avrebbe cancellato la differenza sessuale e femminile in nome del genere.

Per loro, una persona di sesso maschile che dichiara di essere “donna” dovrebbe avere accesso agli spogliatoi delle donne, ai bagni delle donne, agli sport femminili, ai rifugi anti violenza femminili e alle prigioni femminili.

Al posto di “donna” vorrebbero che usassimo “produttrice di ovociti”.

Come dice su ABC il saggista francese Guy Sorman, “questa ideologia richiede il passaggio da una civiltà ritenuta ‘patriarcale’ a una nuova civiltà, basata sul trionfo della differenza. Una sorta di carnevale culturale, portato alla sua logica conclusione, che si traduce in ciò che negli Stati Uniti si chiama cancel culture. Porta a togliere la parola, o la penna, a tutti coloro che non aderiscono all'ideologia del ‘risveglio’. La demolizione delle statue, la revisione dei libri di storia, la sostituzione dei nomi di strade o scuole, fanno parte di questa cultura”. 

Questa è la barbarie woke che spinge perfino il colosso Nike a produrre una pubblicità in cui la storia greca è liquidata come “patriarcale”.

Edoardo Albinati con la sua “scuola cattolica” fa scuola ovunque.

Per questo sono d’accordo con Alain Finkielkraut e sono contrario alla parola “femminicidio”: “E’ la riduzione, da parte delle più forti ideologie contemporanee, degli individui allo stato di esemplare”.

Ma lasciamo stare il gender, che è una bomba culturale che per capirla servono teste pensanti e non cervelli all’ammasso.

Prendiamo invece un altro paladino della nuova lotta al femminicidio, Roberto Vecchioni, che da giorni sale in cattedra su La7 a darci lezioni sulle donne.

Vecchioni ha dedicato una canzone, “Marika”, a una kamikaze palestinese che ad Haifa sterminò un bel po’ di famigliole israeliane al ristorante. La canzone dice:

“Canta Marika canta, come sei bella nell’ora del destino, ora che stringi la dinamite come un figlio al seno. Canta Marika canta, nel buio della storia, lucciola che si accende sul far della sera, canta Marika la nostra memoria”.

Il cantastorie di sinistra che ora fa lezione in tv sul patriarcato ha dedicato una canzone d’amore a una terrorista suicida palestinese. Era l’ottobre del 2003. Il ristorante Maxim è un locale attaccato a una pompa di benzina, grandi vetrate sul mare, semplice ma rinomato per la sua cucina mediorientale. Era uno splendido sabato di sole, la spiaggia era affollata degli ultimi bagnanti della stagione, quando una donna palestinese, Henadi Jaradat, ha lasciato la sua casa di Jenin, in Cisgiordania, ha attraversato il valico di Barta e accompagnata da un arabo israeliano ha raggiunto il Maxim. Lì la presenza della giovane palestinese non destava sospetto. Il corpetto esplosivo era pronto a seminare la morte, ma un cameriere arabo le ha porto il menu e preso l’ordinazione. La terrorista ha mangiato con calma, scrutando le famiglie israeliane che consumavano il loro ultimo pasto. Poi si è fatta esplodere. Ha distrutto famiglie intere, gli Zer-Aviv, i Biano, gli Almog. 21 morti, tra cui 5 bambini.

Sarebbero questi, gli alfieri della lotta al femminicidio?

In piazza a Milano contro il femminicidio e per Giulia Cecchettin c’era la créme della sinistra con in testa Pierfrancesco Majorino, lo stesso Majorino che ha lanciato il “Progetto Aisha” a Palazzo Marino. Aisha, la "sposa bambina" di Maometto.

Quando ci furono gli stupri di Colonia - centinaia di ragazze violentate dai migranti la notte di Capodanno - su La Repubblica Natalia Aspesi, oggi lanciatissima contro il femminicidio, riesce a non nominare mai la questione islamica (sono “maschi stranieri”), evoca invece i temibili “branchi di paese” italiani e quindi le donne occidentali che “non sono quiete da nessuna parte, anche in casa devono stare attente, gli stessi uomini che non le avrebbero difese a Colonia possono sempre spaccare loro la testa”. Interviene anche Dacia Maraini: “Stento a credere che tra gli aggressori ci possano essere migranti e rifugiati - dice sul Mattino -, gente che ha alle spalle storie molto dolorose”. Paola Caridi scrive: “Razzismo, islamofobia, populismo sulla questione delle migrazioni, attacchi ai profughi in quanto disturbatori della quiete pubblica europea”. Fino al vignettista Vauro, che sull’orrendo Fatto Quotidiano taglia corto con uno dei suoi disegnini: “Le nostre donne ce le stupriamo noi!”.

Intanto, veli ovunque.



Illustrare l’“arte di vivere europea”? Una ragazza velata.



Il “mese europeo della diversità”? Velata.

Due anni fa, per l’uccisione in America di George Floyd da parte di un poliziotto, in Italia si ebbero manifestazioni di solidarietà, dalla deputata ed ex presidente della Camera Laura Boldrini alla giornalista Myrta Merlino, che si inginocchiò in diretta dagli studi de La7. Si riempirono le piazze per Floyd, come a Milano, dove lo slogan fu: “Razzismo, brutta storia”. 

Dal primo gennaio al primo novembre 2023, degli 87 femminicidi dei quali è stato accertato l’autore, 22 sono stati commessi da stranieri, ben il 25 per cento considerando che gli stranieri sono l’8,5 per cento della popolazione residente in Italia.

Un anno dopo George Floyd, una ragazza musulmana, Saman Abbas, cade in una vera e propria imboscata della famiglia: padre, madre, zii e cugini. Abbass è stata infoibata perché non rispettava la Sharia. Per lei non si sono viste manifestazioni di piazza, nessuno si è inginocchiato in diretta tv, in Parlamento non ci sono stati gesti di solidarietà e anzi, le stesse politiche che un anno fa denunciarono il “razzismo bianco” su Floyd hanno fatto a gara su Saman Abbas a edulcorare, smorzare, nascondere, dissimulare. Emma Bonino (“uno dei molti volti del nuovo femminicidio”), Valeria Fedeli (“è un femminicidio, l’Islam non c’entra”), Laura Boldrini (“misoginia e maschilismo”)… Nessuna di loro ha saputo pronunciare le parole chiave di questa tragica storia: “sharia”, “delitto d’onore”, “Islam”…Eppure il cugino di Saman lo aveva detto: “Se una lascia l’Islam, merita di morire”. 

Com’era quella, il “corpo delle donne”?

Per questo Emmanuel Todd, blasonato sociologo e demografo nipote dello scrittore Paul Nizan e dell’antropologo Claude Lévi-Strauss, ha scritto che “parlare di patriarcato in modo indifferenziato per evocare la situazione delle donne a Kabul e nella regione parigina non ha senso”.

Per questo l’unico tutor di origine africana dell’Oriel College, in Inghilterra, Marie Kawthar Daouda, autrice di L’Anti-Salomé, ha affermato che il patriarcato nella Gran Bretagna vittoriana è “per molti versi ancora migliore delle condizioni che le ragazze e le donne subiscono attualmente in diversi paesi africani”. Fare storie su una statua è invece un “segno abbagliante del privilegio occidentale” e sarebbe un lusso che nessuno potrebbe permettersi in altri paesi.

Le ragazze israeliane stuprate in nome del patriarcato islamico, le ragazze iraniane velate e torturate in nome del patriarcato islamico, le ragazze come Saman infoibate in nome del patriarcato islamico, le ragazze di Colonia violentate in nome del patriarcato islamico, le ragazze palestinesi mandate a morire in nome del patriarcato islamico e tante altre non sanno che farsene di tutta la nostra retorica sul “femminicidio”.

Canta Marika canta, come sei bella nell’ora del destino…

Pur di smantellare la propria civiltà, i nostri Vecchioni sono pronti a sottomettersi all’Islam.

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