Di noi si sa poco, a volte nulla. Al massimo si sa quello che di noi hanno raccontato i sopravvissuti. Ma noi stessi non abbiamo potuto mai raccontare i nostri pensieri, il nostro dolore.
Mi presento: mi chiamo Elvira, diciassette anni appena compiuti ed ero la Principessa dalla Chioma d’Oro del mio povero Babbo. Di lui ho perso traccia da subito, già fuori al portone di casa. E anche di Mammina lo stesso.
Genitori amati… Massimo e Rebecca, dove siete!
Adesso conto i miei respiri, in un orrore che non avrei mai immaginato neanche lontanamente potesse esistere sulla faccia della terra.
Mi manca l’aria, sono giorni che siamo qui ammassati come rifiuti, come pattume, in un vagone bestiame sigillato da cui non è possibile neanche gettarsi sulle rotaie per morire.
Eppure mi par ieri l’altro che prendevo ogni mattina la littorina insieme a Teresa, la mia compagna di banco, amica del cuore. Bellissima, Teresa. Fossi stata un giovinotto, di certo le avrei fatto il filo senza darle tregua. Ma buon sangue non mente: quando incontrai per la prima volta suo fratello maggiore ebbi un tuffo al cuore, mi si strozzò il respiro alla sua vista. Lui però neanche mi vide, ai suoi occhi ero solo una minuta mocciosa pallida, trasparente. Loro invece sono bruni, chioma corvina brillante, sopracciglia folte di quelle che conferiscono bontà allo sguardo. Come quelle di Babbo.
Quando Teresa scioglie i capelli è uno spettacolo unico, le arrivano al fondoschiena, con rispetto parlando. “Come mia nonna sarda”, puntualizza ogni volta.
Ma ogni medaglia ha il suo rovescio. Un giorno mi confidò che lei, di nascosto di sua madre, almeno una volta al mese con una pinzetta tirava via i baffetti e sfoltiva le sopracciglia che tendevano a unirsi conferendole, a suo dire, un’aria da deficiente. La mamma non voleva e diceva che per ogni pelo tirato per vanità, il demonio ne avrebbe fatti crescere tre per punizione.
Io non credo al diavolo e non ho mai creduto neanche a dio. Lassù non c’è nessuno che comanda, ci siamo solo noi, librati nell’infinito.
Insieme a Teresa, ho preso la littorina fino al giorno in cui è cominciata la fine: il Babbo, persona sempre garbata con un ottimo impiego, gli fanno: “Siamo spiacenti, ma sono ordini superiori…” ed è bastato questo per ritrovarsi senza lavoro e senza più nulla. “Del resto, come nascondervi, con il vostro cognome inequivocabile?”
Sì, inequivocabile. Anche se per Teresa, sin dalla prima media, era voce del verbo levare: “Vile Elvi, ti Levi!?” ed io puntualmente le mollavo uno sganascione amichevole.
Ora accanto a me scorgo un giovinotto che, prima di finire qui, doveva essere avvenente e di molto! Respiro da giorni solo puzzo di orina, feci e sudore. Anche io l’ho fatta sotto e me ne vergogno. Ma mi faccio coraggio e mi avvicino a lui. Ha gli occhi buoni di mio padre.
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Sono Riccardo, ho venticinque anni, mi ero laureato e avevo da poco cominciato a lavorare. Ora sono qui e non vedo l’ora che tutto questo finisca al più presto. Nell’angolo in fondo a sinistra, in mezzo a decine di nostri corpi ammassati c’è un amico di famiglia, un distinto signore ridotto pelle e ossa. Prega ininterrottamente. Il suono dolcissimo della nostra lingua più antica per me è l’unico conforto. Sarà difficile che da questa trappola la sua preghiera possa raggiungere l’Altissimo.
Al centro della vettura, invece, finalmente ha chiuso bocca un essere viscido che non ha fatto altro che puntare il dito accusatorio. “Se siamo qui, è per colpa di quelli di noi che hanno sempre mantenuto le distanze, che non si sono mai voluti integrare, altezzosi e pieni di sé, avari…”
E’ andato avanti per ore. Lo avrei ucciso con le mie mani. Non abbiamo più nulla da perdere, ma almeno la dignità no, quella non me la può negare nessuno.
Mentre sono assorto in questi pensieri lugubri, mi volto ed è come se all’improvviso il sole fosse entrato qui dentro. Sudata, coi capelli arruffati, mi sorride con gli occhi e mi dona quella vita che sentivo sfuggirmi.
- Mi scusi, signore, potrei poggiare un poco la testa sulla sua spalla?
- Signorina, ne sono onorato, non ha nulla di cui scusarsi. Siamo in questa situazione…
-Lei ha gli occhi buoni del mio Babbo…
E gli occhi le diventano lucidi. Sono celesti, forse verdi. Di certo anche i suoi sono occhi buoni.
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Non so quanti giorni sono passati ancora. Appena arrivati a destinazione, ci hanno fatti scendere separando donne e uomini. A un tratto, un ufficiale tedesco mi afferra per il braccio e, con un sorriso glaciale, mi invita a seguirlo. Mi porta in uno stretto sgabuzzino e lì compie violenza carnale sul mio corpo. Da quel momento non mi è importato più di nulla. Sanguinavo. Mi hanno fatta denudare, mi hanno rasato i capelli e per tuto quel tempo io non vedevo l’ora che finisse.
Nella doccia, ho visto il mio corpo accasciarsi per terra insieme a centinaia di altri corpi. Poi qualcuno lo ha caricato su di una carriola ammassandolo su altri corpi ancora. Intanto mi libravo in alto nel cielo insieme a mille e altre mille mie compagne di sventura. Finalmente era finita!
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Appena arrivati a destinazione, ci hanno fatti scendere separando donne e uomini. A un tratto, un ufficiale tedesco mi afferra per il braccio e, con un sorriso glaciale, mi invita a seguirlo. Io mi libero dalla presa e gli urlo con tutta la voce che ho in gola “Iss Scheißkartoffeln!”, mangiapatate di merda. Lui mi pianta un proiettile dritto in mezzo agli occhi.
D’improvviso ero leggero, mi libravo in alto nel cielo insieme a mille e altri mille miei compagni di sventura. Finalmente era finita!
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Milano, 11 agosto 2014. Ora di punta in metropolitana. Sono in piedi e mi sorreggo a stento. Troppa ansia: è il mio primo colloquio di lavoro. Sono già zuppa di sudore. Dal navigatore sul telefono non riesco a capire se mi conviene scendere alla prossima o alla successiva. Magari sarà meglio chiedere. Abbasso lo sguardo sui passeggeri seduti e c’è un uomo anziano con un quotidiano spaparanzato anche sulle gambe del suo vicino. “MARGINE PROTETTIVO”, leggo in grassetto. A volte è necessario averne uno, ma spesso io opterei piuttosto per MARGINE AGGRESSIVO perché è sempre meglio prevenire. Infatti, schiaccio apposta il piede di uno che si stava avvicinando troppo alle mie chiappe e non me la contava giusta.
Mi decido, scegliendo un ragazzo dallo sguardo paterno: “Scusi…”
E chiedendogli l’informazione non posso fare a meno di pensare al video che mamma mi ha girato stamattina, quello di Totò a Milano “per andare dove vogliamo andare, per dove dobbiamo andare?”
Lui mi dice di seguirlo. Ok, tanto non potrà farmi a pezzi in mezzo a tanta gente.
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Lunedì 11 agosto 2014. Caldo da morire. Vorrei essere già a mare, ma mi tocca Milano, almeno per un altro paio di settimane. Per ora schiatto, poi si vedrà. Non ho nemmeno con chi andare. Coi miei stavolta no, ma per davvero. Sennò finisco come Robertino.
Qui a Milano resisterò al massimo per un anno, poi devo assolutamente farmi trasferire in un piccolo centro, magari nelle Marche che mi piacciono.
Sento uno sguardo sul collo. Mi volto ed è come se all’improvviso il sole fosse entrato qui dentro. Sudata, coi capelli arruffati, mi sorride con gli occhi e mi dona quella vita che sentivo sfuggirmi. Già l’ho vista da qualche parte. Sicuro. Mi rivolge la parola e mi sento un imbecille.
“Può seguirmi, se lo ritiene opportuno. Lavoro in quello stesso edificio.”
Acconsente e, tornati in superficie, finalmente posso farle la domanda che ho in mente dal primo istante.
- Prende spesso questa linea, vero?
- No, veramente è la prima volta che prendo la metro a Milano.
- Ah… - mi sento un coglione – Eppure avrei giurato di averla già vista.
- Avrò una sosia.
Dalla stazione all’ufficio saranno al massimo 500-600 metri. Il nostro sembra uno scambio di dati su fibra ottica. Quando ci salutiamo, mi sento come ubriaco. Di lei so praticamente l’indice di tutto ciò che ci si può raccontare e altrettanto lei di me. Ci scambiamo i numeri.
- Mi chiamo Rebecca.
- Io Massimo.
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1° agosto 2021
Siamo in macchina da un paio di ore. Mi piace guidare in autostrada, mi rilassa. Le Marche sono alle spalle. Primi 200 chilometri percorsi. Ce ne restano altri 520 circa. Tacco dello Stivale, arriviamo!
Rebecca ha reclinato un po’ il sediolino e ha socchiuso gli occhi.
Dietro, Riccardo, 5 anni, è il più giovane DJ da viaggio, col suo bluetooth e la canzone dello Zecchino d’Oro scritta da Simone Cristicchi.
La piccola Elvira come suo solito fa l’appiccicosa e vuole poggiarsi addosso a lui.
- Vile Elvi, ti levi!?, fa lui.
Al che Rebecca comincia a ridere a crepapelle, fino alle lacrime.
Poi piange, ma piange davvero.
I bambini allungano le manine per consolarla.
- Che succede?
- Non lo so... piango di felicità.
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